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Siamo negli anni ‘70 e Francesco Guccini, nella sua bellissima e malinconica “Incontro”, racconta i ricordi fugaci condivisi con un’amica persa per strada e poi incontrata per caso. Il verso conclusivo è un manifesto dell’incomunicabilità di certe esperienze: la testa è vuota, è priva di pensieri e dunque di parole per esprimerli, ma il cuore è pieno di simboli. Un linguaggio oscuro, inconscio, lo lega ai luoghi che racconta, al tempo trascorso, a quell’amica trasfigurata e forse perduta per sempre.
Da quando esiste la cultura di massa, la contrapposizione fra un piano concreto, tangibile e direttamente comunicabile e un piano simbolico, comunicabile solo se interpretato e svelato, è una delle dicotomie più dibattute tra gli esseri umani. Cinquant’anni fa si aveva ancora una grande fiducia nel simbolico: la poesia, la psicoanalisi, l’arte, la stessa conoscenza scientifica, richiedevano sempre uno sforzo interpretativo. Oggi vige la “dittatura del concreto”, l’evidenza dei dati di fatto. Il simbolico sembra essere un piano attraente solo per intellettuali d’antan, un discorso astratto buono per qualche saggio letto in un locale radical chic, tra una birra artigianale ed un bicchiere di vino naturale.
La dittatura del concreto si fonda interamente su un presupposto: i fenomeni umani non hanno più interpretazioni sociali, ma individuali. Anche quando parliamo di qualcosa che riguarda un numero ampio di persone, la tendenza è quella di percepire il gruppo come un insieme di individui scissi che condividono una caratteristica, più che una cultura che informa, plasma ed è co-costruita da individui in relazione fra loro.
A questo punto so che il mio discorso possa apparire oscuro, per cui caliamoci in un esempio. Si parla spesso di workaholic, una forma di dipendenza dal lavoro cui sarebbero soggiogate sempre più persone. Un mito che nasce nella finanza degli anni ‘80, quando la figura del broker o del manager rampante stavano cominciando a scalare la classifica del successo nell’immaginario collettivo. Persone dedite solo al lavoro, che sacrificano famiglia, hobby, rapporti sociali e anche i bisogni primari, pur di eccellere nella propria professione. Una dedizione che somiglia a una dipendenza e che, come tutte le dipendenze, sarebbe espressione di tratti individuali, caratteriali.Siamo davvero sicuri che sia però un problema dell’individuo? Propongo una riflessione che parte da lontano e che apparentemente non ha nessun legame: il calendario.
Nel suo prezioso saggio “La fondazione di Roma”, Andrea Carandini, archeologo cui si deve la scoperta della reale esistenza storica e della collocazione esatta del pomerium, il confine sacro tracciato da Romolo per delimitare la città di Roma, analizza il calendario romano:“Il poeta Ovidio e alcune iscrizioni ci dicono che il calendario romuleo durava dieci mesi e coincideva con la durata della gravidanza della donna [...]. Se dicembre era il decimo mese, il primo era dunque marzo. Il 15 marzo del resto era il capodanno romano originario [...]. Mi domandavo come mai l’anno si concludesse con la festa denominata Terminalia, che cadeva il 23 dicembre [...]. Ho contato i giorni dal 15 marzo al 23 dicembre e ho verificato che sono 274, proprio il numero di giorni che gli antichi attribuivano alla gravidanza”.
Continua Caradinini:
“Ora rimanevano da giustificare gli altri giorni, quelli che vengono dopo il 23 dicembre, cioè dopo la fine dell’anno e prima dell’inizio dell’anno successivo. Ora, tra la fine dell’anno, il 23 dicembre, e il capodanno, il 15 marzo, si può individuare proprio un periodo caratterizzato dalla sterilità. E infatti, prima dell’insorgere delle mestruazioni e nei giorni dopo il parto la donna è sterile”.
Il calendario romuleo è un esempio calzante di come, in antichità, il piano simbolico e quello materiale-concreto convivessero in un’unica formula interpretativa. Erano lati della stessa medaglia e forse, ancor più, ingredienti mescolati in una salsa omogenea, nella quale le singole parti sono ormai indistinguibili.
Il tempo ordinario, attraverso cui era possibile appunto ordinare le stagioni, i cicli di semina, crescita e raccolto, era indissolubilmente legato alla gravidanza, che non solo rappresentava una metafora, ma proprio un modello interpretativo del ciclo del tempo, dunque della produttività.
Così come dopo la gravidanza esiste un periodo di sterilità, necessariamente - per i romani - anche la terra aveva bisogno di un periodo di latenza improduttiva e con essa le attività umane. Non a caso, il periodo invernale era quello in cui si cessava ogni attività produttiva: non si lavorava la terra, ma non si faceva nemmeno la guerra. Le due principali categorie produttive romane - contadini e soldati - si fermavano in attesa che tornasse la fertilità.
Fra la fine dell’anno e l’inizio del nuovo anno, c’era uno spazio che non aveva bisogno di essere conteggiato. Era il tempo della sospensione, del riposo, del recupero “naturale” del ciclo della vita, nel ventre materno, così come nei campi e nei boschi.Pensiamo ora a come ordiniamo il tempo in epoca contemporanea. Fine e inizio dell’anno si susseguono senza soluzione di continuità. La fine non è celebrata con la sospensione, ma con un repentino rinnovo: materiale (pensate alla pratica in voga fino a pochi decenni fa di gettare gli oggetti vecchi dalla finestra) ed esistenziale (l’elenco dei buoni propositi per il nuovo anno).
La nostra società non concepisce periodi di improduttività. Non li concepisce, prima di tutto, a livello simbolico. Il calendario non si interrompe mai, il ciclo è continuo, come nella produzione industriale. Il simbolico ricade però sul concreto: lavoriamo sempre di più, gli spazi di lavoro colonizzano il “tempo libero”. Con lo smart working il lavoro penetra anche nelle case, cioè nei luoghi un tempo concepiti religiosamente come privati, familiari, improduttivi.
A questo punto, la domanda che vorrei porre è: il fenomeno del workaholic è un tratto che riguarda l’individuo o ci parla della nostra cultura, di come concepiamo il tempo e la produttività? Siamo sicuri che il simbolico sia un’astrazione intellettuale e non invece un segno, che se interpretato, ci permette di comprendere il senso delle nostre vite pratiche?
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Concludo tornando agli anni ‘70 di Guccini. Nel 1974, Enzo Del Re pubblicò un pezzo che ebbe molto successo, “Lavorare con lentezza”.
“Lavorare con lentezza, senza fare alcuno sforzo. La salute non ha prezzo, quindi rallentare il ritmo”.
All’epoca, la cultura del lavoro - e del ritmo del lavoro - era incentrata su significati piuttosto diversi da quelli odierni. Il lavoro era sì il fulcro della vita dell’uomo, ma i ritmi produttivi dettati dall’industria erano motivo di conflitto con i lavoratori. L’iper-produttività non era un valore da inseguire, quanto una angheria da combattere. La lentezza come simbolo del lavoro, indispensabile per il benessere e la salute di tutti. Oggi quella lentezza ci metterebbe a disagio, al netto delle differenze individuali.